Un Forum civico per il post sovranismo può essere uno strumento utile a riconnettere la politica e i cittadini. L’idea è stata lanciata dal cardinale Bassetti sull’Avvenire del 9 dicembre scorso con riferimento alle tante esperienze di impegno civile disseminate sul territorio attente a “cucire reti di solidarietà e di cura; capaci di essere il sale della terra e di parlare e dialogare con tutti coloro – senza distinzione di fede e cultura – che hanno veramente a cuore il futuro dell’Italia e dell’Europa. Senza creare nuovi ghetti e nuovi muri.”
La proposta è stata, poi, ripresa da Mauro Magatti, Alessandro Orsina, entrambi docenti dell’Università Cattolica, Leonardo Becchetti dell’Università Tor Vergata e Marco Bentivogli segretario nazionale Fim Cisl, a conclusione di una analisi sulla situazione che il nostro Paese e l’insieme dei Paesi ad alto reddito stanno vivendo, pubblicata sull’Espresso del 16 dicembre 2018.
L’appello alla nascita di “una grande rete per l’Italia e per un futuro solidale europeo” muove da un dato reale: la frattura tra “i due terzi della popolazione che vede arretrare la quota di propri salari e vivono la globalizzazione come una minaccia e un terzo, costituita da cosmopoliti e integrati che, al contrario, vede crescere la propria quota di salari”. In altre parole si assiste ad un rovesciamento del rapporto che sino a vent’anni fa vedeva i due terzi della popolazione ampliare le proprie chance di vita e un terzo arrancare. Una “situazione esplosiva” sulla quale i movimenti nazionalpopulisti hanno costruito il loro consenso attraverso due parole d’ordine: caccia all’untore-migrante e violazione delle regole su cui è costruita l’attuale solidarietà europea. I migranti e l’Europa sono diventati, allora, i due nemici da combattere al grido di “prima gli italiani”.
Come si risponde al fascino di queste pulsioni che tradiscono sentimenti di paura e di rabbia? Come restituire concretezza alla speranza di futuro che sola può vincere questi sentimenti? Come liberare il buon senso dalla prigione in cui lo condanna il senso comune?
L’Italia può uscire da questa situazione di “sospensione” – come recentemente l’ha definita il cardinale Bassetti – solo se la “visione” dell’ apertura e della rinascita del sogno europeo prevale su quella della chiusura, del ripiegamento su se stessi e del conflitto sovranista.
L’Appello per un Forum civico richiama una visione nuova di società e di futuro fondata su tre elementi: innanzitutto, la consapevolezza che “la soddisfazione e il senso della vita dipendono dalla capacità di contribuire al progresso di altri esseri umani e della società”. In secondo luogo, il ripensamento del modello di sviluppo vigente che “ha portato enormi benefici, ha sollevato dalla povertà mai come nel passato milioni di persone nel mondo, ma ha elementi di forte squilibrio, perché orientato al massimo profitto e al benessere dei consumatori subordinando a questi obiettivi il tema fondamentale della dignità del lavoro e della tutela ambientale”. Infine, il riconoscimento che la dimensione globale non annulla le specificità e le differenze dei territori, così ben sintetizzato dal “pensare globalmente e agire localmente”. Su queste basi sarà possibile sviluppare una visione “generativa” della società, radicalmente alternativa a quella conflittuale e rancorosa dei nazionalpopulisti.
“La generatività – osserva Leonardo Becchetti – dipende dalla concomitanza di tre fattori. Il primo riguarda le potenzialità personali rappresentate essenzialmente da capacità reddituale, salute e istruzione. Il secondo è identificabile nelle condizioni sociali che rendono possibile la generatività personale (libertà di iniziativa, assenza di lacci e lacciuoli). Il terzo – e decisivo – è la generatività in atto, ossia la capacità delle persone di tradurre queste potenzialità personali e sociali in una realizzazione di vita dove il nostro essere e agire contribuisce positivamente alla vita degli altri realizzando anche la nostra”.
Questa visione ispira già tante esperienze della società civile: dal volontariato che fa accoglienza alle imprese sociali che rispondo alle domande di integrazione, ai laboratori urbani che ricostruiscono le relazioni comunitarie, alle start-up innovative che con coraggio sottraggono le giovani intelligenze dalla fuga cui altrimenti sarebbero condannate a causa del lavoro che manca nei loro territori, alla tante buone pratiche disseminate in tutto il Paese, per esempio quelle che tentano di restituire alle comunità il maltolto rappresentato dall’enorme quantità di beni sottratti alla criminalità organizzata. Queste realtà, espressione del pluralismo culturale del Paese, rappresentano senza dubbio un nucleo significativo della grande rete evocata dall’Appello. Perché questo nucleo si espanda fino a coinvolgere altre realtà, che come un fiume carsico scorrono nelle pieghe più nascoste del Paese, c’è bisogno di un impegno. Più ancora, di una vera e propria “missione.”
Per organizzare in concreto questa missione, suggerirei una esperienza nata “sul campo”, intorno alla metà degli anni novanta del secolo scorso. In quegli anni, ricercatori come Giuseppe De Rita, presidente del Cnel, e manager pubblici come Carlo Borgomeo, presidente di Imprenditorialità Giovanile, diedero vita ad una modalità di accompagnamento dei processi di sviluppo dei territori riprendendo una intuizione di Adriano Olivetti. Chiamarono Missioni di sviluppo questa modalità e fecero degli animatori di comunità le gambe delle Missioni. A loro fu affidato il compito di riannodare le relazioni comunitarie (le reti corte) e di ripristinare il legame con le Istituzioni (le reti lunghe) intorno alla domanda di sviluppo che la comunità, attraverso i suoi attori, veniva sollecitata a definire.
Questa esperienza può aiutare oggi la politica a ritrovare le nuove parole, a ricomporre una nuova grammatica. La filosofia di quel modello di intervento territoriale continua, oggi, ad ispirare il Progetto Policoro, promosso venticinque anni fa dalla Cei con l’obiettivo di aiutare le comunità e soprattutto i giovani ad osare il lavoro, a produrre conoscenza delle opportunità, a stanare la domanda di sviluppo, a promuovere lo spirito collaborativo e partecipativo dei soggetti del territorio per costruire percorsi virtuosi di crescita.
Del futuro che non si scorge, della speranza affievolita, della povertà, del lavoro che manca, della precarietà, oggi, nel tempo delle paure, recuperando il “significato politico” dell’animatore di comunità, della rete dei 140 animatori presenti in altrettante diocesi, si potrebbe fare una occasione per concorrere alla costruzione della nuova visione di società e alla organizzazione di una rinnovata partecipazione politica.
Le nuove Missioni avrebbero tre compiti fondamentali: 1. comunicare l’idea generativa della società; 2. costruire inedite alleanze dei mondi vitali della società civile; 3. sollecitare e raccogliere le domande di sviluppo dei soggetti territoriali. Le nuove Missioni vedrebbero gli animatori di comunità agire nei territori con uno stile laico; laico non solo nel senso di attento a preservare l’autonomia della Chiesa, ma anche nel senso di un modo d’essere aperto, privo di preconcetti ideologici.
Senza il coinvolgimento nella nuda vita delle persone e delle comunità, qualunque speranza di cambiamento reale è destinata a rimanere mera categoria dello spirito, mera illusione dei ristretti circoli dell’autoreferenzialità; di quei circoli in cui una élite incapace di ascoltare e di vedere ciò che accade intorno ad essa, si compiace della propria diversità e forse anche della propria superiorità morale.
Se questo legame tra l’appello per una rinnovata partecipazione politica attraverso la promozione di un Forum civico e il ruolo degli animatori di comunità dovesse essere considerato non solo prezioso per la diffusione di una nuova cultura politica ma anche legittimo dal punto di vista ecclesiale, si potrebbe avviare un percorso progettuale per rendere operativo il legame.
Luigi Lochi
Lecce, 19.12.2018