Come è noto e come dice il titolo, l’opera principale di Marx, Il Capitale, è dedicata ad analizzare il sistema capitalistico. In esso si descrive la condizione dell’operaio nella fabbrica manifatturiera, ma l’attenzione è rivolta a quel carattere del suo lavoro, che in quanto produttore di valore e di plusvalore, consente l’accumulazione capitalistica.
L’operaio è sfruttato in quanto non riceve tutto il valore che produce: viene retribuito solo per una parte che corrisponde alla sua sussistenza, mentre la parte restante, il plusvalore appunto, rimane al capitalista. Va sottolineato che la parola “sfruttamento” non ha in questo caso alcun significato di oppressione o di angheria, ma rimarca solamente la differenza tra il lavoro prestato e il valore realizzato.
Questo processo è possibile perché è il proprietario, il capitalista, che decide del funzionamento dell’impresa e dunque solo cambiando la proprietà sarà possibile, in futuro, modificare tale situazione. Il sistema capitalistico ha inoltre un carattere “progressivo”; costituisce un radicale superamento del sistema precedente e la sua affermazione e il suo sviluppo sono da considerare non solo positivi, ma necessari per poi poter passare alla fase superiore socialista.
In questa ferrea logica – che è stato lo schema teorico di riferimento per il movimento storico socialista e comunista – ci sono molte cose che non tornano e che hanno avuto molta influenza sulle vicende politiche e sociali degli ultimi cento anni. Qui vogliamo affrontarne una, tanto essenziale quanto attuale.
Il contratto di lavoro presenta due aspetti: da una parte una condizione di dipendenza, dall’altra un trattamento economico; ora la dottrina del valore-lavoro e del plusvalore riguarda la parte economica del contratto e a questo aspetto si è rivolta la critica delle forze marxiste, trascurando totalmente l’altro aspetto. Tutto questo appare logico nello schema che abbiamo brevemente sintetizzato, in quanto tutto è rinviato al futuro.
Ma la condizione concreta dei lavoratori occidentali, che conoscono in larga misura delle condizioni salariali discrete almeno relativamente, è molto più determinata dalla condizione di dipendenza. E’ dal rapporto di dipendenza del lavoratore che dipende la sua subalternità, la mancanza di libertà nel determinare il proprio lavoro, le eventuali condizioni di oppressione e di ricatto, i rischi di licenziamento, la possibilità di scegliere gli orari, in poche parole la mancanza di autonomia, che si traduce spesso in una condizione eterodiretta.
Molto ha fatto il sindacato a riguardo per affermare i diritti essenziali dei lavoratori e indubbiamente anche lo Statuto dei Lavoratori è stato importante per affermare in fabbrica i principi di libertà. Però – e questo è il problema – la condizione di dipendenza del lavoratore in fabbrica rimane e ciò costituisce un vulnus per la democrazia. Il lavoratore vive la maggior parte della giornata in una condizione di subalternità, ma dovrebbe essere poi nella vita civile un cittadino cosciente che porta, alla pari di tutti, il proprio contributo alla collettività.
Il grande problema della democrazia risiede nella sua natura stessa: il governo del popolo richiede un popolo libero e cosciente in grado di assumere posizioni responsabili. Se le condizioni di libertà del popolo sono inficiate all’origine, il popolo si manifesterà comunque, ma sarà più facilmente disposto a richiami populistici, mode irrazionali, eventi senza prospettive.
La democrazia per poter vivere e svilupparsi ha bisogno di un “ambiente democratico”, cioè di condizioni favorevoli che la consentano e l’accompagnino, che creino fiducia sulla esperienza democratica stessa. Cambiare la condizione di dipendenza dei lavoratori in fabbrica è dal punto di vista della democrazia una questione essenziale.
Per questo è necessario aprire una grande battaglia sulla partecipazione dei lavoratori; sarebbero molte le cose da fare a riguardo, ma si può partire da una legge che realizzi la partecipazione dei lavoratori su questioni importanti della vita delle imprese. Il capitalismo non è immodificabile e l’impresa non è solo dell’imprenditore; è un’istituzione che molto deve ai lavoratori che quindi hanno il diritto di parola. Abituarli ad avere possibilità di parola sulla loro vita quotidiana vuol dire farne delle persone responsabili e sarà più facile per loro esserlo anche fuori dall’azienda.
Sandro Antoniazzi