La riflessione per una nuova cultura politica non può che partire – come Sandro Antoniazzi giustamente fa – dalla condizione globale che ci attraversa e condiziona. Detta come la vedo io, si tratta di un ciclo storico-politico che da quarant’anni circa ha sostituito il precedente ciclo, quello della “età dell’oro” del capitalismo (grande crescita, allargamento del mercato globale, compromesso con la democrazia di massa, interventismo keynesiano degli Stati, redistribuzione del reddito per via fiscale e per via della prima estesa sperimentazione del Welfare State). Quella stagione si è consumata un po’ per squilibri interni, un po’ per maturazione di processi che non avevano più ulteriore spazio per crescere e quindi hanno segato le basi su cui si erano sviluppati. Ed è stata sostituita da una nuova stagione del capitalismo, quella della globalizzazione, centrata sostanzialmente sulla finanziarizzazione del centro e l’industrializzazione della nuova periferia dei paesi emergenti, unita all’unificazione dei mercati delle merci e dei capitali (guidando politicamente una riduzione globale del peso del lavoro, collegata all’espansione della logica finanziaria e alla polarizzazione crescente dei redditi nei paesi “maturi”, con il parallelo ridimensionamento della mano pubblica nel coordinamento dell’economia, in direzione di una ortodossia monetarista). Questo per dire tutto in estrema sintesi.
In questo orizzonte inedito, le forze della sinistra democratica hanno tentato di governare il processo, in nome dell’equità, senza realisticamente negarlo o cercare di fermarlo, ma l’hanno il più delle volte assecondato, senza ottenere grandi correzioni. Parallelamente, quelle della sinistra cosiddetta radicale si sono opposte al processo, senza peraltro cogliere che le vecchie condizioni non sarebbe più tornate e venendo quindi spazzate ai margini del campo politico. Il combinato disposto di queste due difficoltà ha spiazzato molte vecchie dinamiche. I ceti e gli ambienti sociali più fragili (il popolo lavoratore reale delle periferie contemporanee), spesso messi a dura prova dalle tendenze reali sopra accennate, si sono trovati senza referenti politici. Molti hanno sbandato a destra, dove sono apparse parole d’ordine vincenti, che hanno spostato il tiro contro nuovi capri espiatori (gli ultimi, gli immigrati, gli stranieri), oppure hanno proposto ricette identitarie attraenti, solo apparentemente mirate contro il nuovo globalismo dei ricchi.
Ora, dopo la crisi del 2008 e l’attuale pandemia, c’è la possibilità di un nuovo ciclo? Questa è la domanda cruciale. Io penso di sì, perché c’è un ritorno della necessità di Stato solido. Una domanda non soddisfatta dai sovranismi, che la gestiscono in modo poco ordinato e contraddittorio (il loro approccio parolaio non regge alla prova del governo reale dei fenomeni complicati odierni). Una domanda, peraltro, fortemente imposta dalla stessa dimensione della crisi di un sistema lasciato a sé stesso. È palese anche ai protagonisti dell’economia privata che essi non sono in grado di rispondere alla vastità dei compiti che sarebbero necessari: non a caso in Italia siamo di fronte a una stasi preoccupante degli investimenti, cartina di tornasole della vitalità del capitalismo. È anche sempre più chiaro che per ripartire occorre maggiore integrazione sociale e riduzione delle diseguaglianze, che quando diventano eccessive sono un fenomeno diseconomico. Occorrono quindi messaggi inclusivi e capaci di coinvolgere i non privilegiati, proponendo modelli che appaiano almeno un poco protettivi dai rischi dei nuovi contesti globali, oltre che parallelamente stimolanti verso nuove forme di crescita solidale e rispettosa dell’ambiente.
Il vero segnale in questa direzione è la correzione di rotta del mainstream europeo fuori dalla stagione dell’austerità, e invece apparentemente ormai inteso – sia pure ancora con molteplici interrogativi aperti e altrettanti limiti possibili – a favorire una stagione di sviluppo solidale e sostenibile con un grande sforzo collettivo di indirizzo delle risorse verso progetti innovativi.
Non dimentichiamo infatti che il riequilibrio del sistema è difficile che avvenga per processi spontanei: il mondo del lavoro è infatti disgregato e debole, le classi popolari sono in piena sindrome individualistico-consumistica (con i ricordati pericoli di illusione populista), le agenzie di aggregazione sociale sono tutte deboli. Certo, è presumibile che prima o poi l’uscita dalla povertà di generazioni di cittadini dell’antica “periferia del mondo” provochi naturalmente un avvicinamento degli standard sociali e delle regole, con l’effetto collaterale di una pressione minore sulle condizioni del lavoro nel Nord sviluppato del mondo. Ma il processo è lentissimo. Se attendiamo che si completi da solo, la via d’uscita populista dal disagio sociale rischia di rafforzarsi ulteriormente e di esplodere. Quindi, che possibilità abbiamo, in condizioni di debolezza contrattuale strutturale dei sindacati, di impostare il miglioramento delle “condizioni minime di diritti uguali per tutti a prescindere dal tipo di lavoro”? Dobbiamo correggere per via statuale decenni di deriva “flessibilizzante” (che non dico non avesse ragioni, ma che ha abbondantemente passato il segno e va ora riequilibrata profondamente).
D’altra parte, è indubbio che dobbiamo puntare a un’economia più articolata, con un settore cooperativistico, sociale e civile più forte. Ma come ci si arriva? Per progressiva spontanea correzione del sistema, con la diffusione di modelli non acquisitivi e cooperativi che allarghino il proprio ruolo per progressiva convinzione degli attori rilevanti? Era la speranza dei cooperatori ottocenteschi. Mi pare utopistico pensarla ancora praticabile. L’unica altra strada è quella degli incentivi e delle regole favorevoli, modellate da parte della mano pubblica. Occorrono insomma condizioni politiche.
Insomma, una nuova stagione si presenta, con la necessità doppia che schematicamente possiamo definire di investimenti e di regole. Da una parte, investimenti pubblici non assistenziali ma protettivi quanto assieme innovativi, per stimolare anche il mondo dell’economia profit. Ma soprattutto per produrre lavoro direttamente e indirettamente, che è la soluzione migliore al disagio delle classi sfavorite ed escluse dall’uso della leva finanziaria. Dall’altra parte, regole cogenti messe dai governi nella direzione del riequilibrio del sistema. Bisogna perseguire regole internazionali concertate (penso alla scandalosa questione dell’elusione fiscale da parte dei giganti del digitale) in quanto la globalizzazione non sarà illusoriamente fermata da alcune minuzie (protezionismi doganali e cose analoghe), e quindi gli Stati intermedi con l’Italia non hanno margine per lavorare da soli: devono farlo nell’orizzonte imprescindibile di un’Europa più forte e rinnovata. Ma anche regole interne più solidali e articolate, che pongano fine ad altri veri scandali (come il caporalato, le leggi sull’immigrazione o le condizioni di lavoro della gig economy).
In questo orizzonte, mi pare sia da superare una stagione politica come quella della “democrazia governante”, che ha puntato tutto sulla verticalizzazione, sulla selezione da parte egli elettori di una maggioranza di governo e sulla logica di decisione degli esecutivi oltre ogni mediazione sociale. Tale modello si è rivelato più coerente con la condizione individualistica e ultra-concorrenziale del capitalismo anglosassone che con la tradizione centro-europea. Ha finito per portare acqua al mulino dello status quo della globalizzazione, invece che favorirne la correzione. Tra parentesi, non è mai davvero attecchito in Italia, restando in balia di piccoli corporativismi e minoranze aggressive. Sarebbe bene ricostruire invece consapevolmente le condizioni di una democrazia “negoziale” o “consensuale”, in cui tornino a essere centrali processi di concertazione tra gruppi, classi, organizzazioni sociali e territori, mediate da forze politiche più solide e tradizionali, che trovino nel rapporto più diretto con i propri elettori la forza di essere più convinte e nette nella difesa dei progetti innovativi. Far emergere gli interessi permette di mediarli alla luce del sole. Adattarsi al nuovo orizzonte post-maggioritario potrebbe così essere utile per innescare qualche cambiamento nel messaggio della sinistra moderna, che potrebbe sentirsi più libera di dire la propria, prima di dover mediare con altri interessi e ideologie.
In questo contesto, occorre trovare alleanze sociali e maggioranze politiche che sostengano la svolta riformatrice profonda che si prospetta. Tra cui la cultura cattolico-democratica (assieme a quella cattolico-sociale, naturalmente nella misura in cui questa si presenti aperta alla mediazione politica e al contributo ordinatore statuale) può essere uno dei perni importanti. Naturalmente non è detto sia opportuno che tale contributo sia fornito in forma di partito o formazione politica identitaria. Anzi, il rischio è che scegliendo questa via ritornino in auge modelli mentali vagamente ma irresistibilmente “centristi”, poco adatti alla radicalità delle prospettive che ci stanno di fronte.
Fin qui, la democrazia istituzionale. Certo, è poi del tutto coerente chiedere un “potenziamento della democrazia” verso nuove forme di “democrazia sostanziale” e di partecipazione. Ma anche in questo campo, non mi paiono esistere spontanee tendenze o pressioni dal basso verso questa direzione. Se vogliamo stimolare – ad esempio a livello amministrativo locale, ma anche politico nazionale – un maggior coinvolgimento in processi partecipativi attorno al bilancio o alle scelte pubbliche, occorre un input che ancora una volta dovrà essere prevalentemente di vertice. E se non vogliamo scatenare le sindromi localistiche e corporative peggiori, ogni processo di questo tipo va governato sapientemente con soggetti politici capaci di convincere e guidare all’integrazione degli interessi e delle prospettive. Dialogo e leadership sono elementi speculari.
Insomma, forse ci sono le condizioni per un rilancio di una cultura politica nuova. Occorre però essere all’altezza di coglierle.
Guido Formigoni
3 Ottobre 2020 at 23:08
Bene
In concreto, però, come si incide sulla globalizzazione con il PD che la sfiora o con un campo largo che l’attraversa o con un modello di sviluppo alternativo e radicale?
E con quale classe politica cattolico- democratica? Non vedo Dossetti, La Pira o Moro in giro
Un ruolo fondamentale di formazione e di scuotimento delle coscienze è svolto da Francesco
E come si coniuga il laicismo individualistico con la socialità cattolica?
La notte è lunga
Dossetti ha ancora ragione. Senza veri cattolici da formare ancora nessuna reformatio sarà possibile