In un commento alla nostra segnalazione del documento pubblico con cui dieci parlamentari del Pd, tra cui Franco Monaco, hanno esposto le ragioni della loro decisione di votare no al referendum costituzionale, Stefano Ceccanti ha invitato a leggere un articolo di Vittorino Ferla, uscito su landino.it. L’articolo fa riferimento, più che al documento dei dieci parlamentari, ad una lettera di Franco Monaco pubblicata sull’Avvenire, che non avevamo segnalato sul nostro sito. Per rendere più agevole ai lettori di seguire questo confronto (non poco polemico e che chiama in causa vicende passate e presenti interne al cattolicesimo democratico), diamo il link sia della lettera di Franco Monaco all’Avvenire (“Le laiche ragioni di un no alla riforma”) sia dell’articolo di Vittorino Ferla (“10 dem, un Monaco e alcune (deboli) idee sulla riforma”).
12 Agosto 2016 at 15:18
Ringrazio per la generosa attenzione critica a me riservata. Persino sproporzionata e soprattutto distraente dalla questione da me posta. Non sulle mie idee più o meno deboli merita discutere (e a me interessa replicare) ma circa il problema, sul quale, francamente, il mio zelante critico non mi pare fornisca alcun contributo. Il problema è il seguente: la distanza e, per certi versi, l’opposizione tra l’ispirazione della riforma costituzionale ed elettorale oggi in discussione e più in genere il corso politico renziano la cui cifra è quella della “disintermediazione” e la cultura politica e istituzionale delle organizzazioni espressione del “sociale bianco”, Cisl in primis. Cioè una concezione della società e dello Stato che valorizza l’autonomia delle forze sociali e degli enti territoriali. Una visione e una pratica di governo che semmai investono sul dialogo e persino sulla concertazione sociale. Un culto quasi sacrale della propria autonomia culturale e organizzativa, refrattaria a ogni collateralismo con partiti e governo.
Si può considerare datata quella cultura, in nome della cosiddetta democrazia decidente, ma negare che vi sia un contrasto con il paradigma della democrazia maggioritaria e di investitura mi pare esorcistico. E persino un palese rovesciamento della verità quando si sostiene che la riforma esalta la sussidiarietà e le autonomie territoriali. Più onesto e convincente sarebbe provare a difendere la evidente verticalizzazione/ricentralizzazione.
Poi vi sono questioni minori. Tipo:
– davvero bizzarra la tesi secondo la quale la FUCI degli anni ottanta, che mise a tema la questione istituzionale, sarebbe espressione caratteristica di quel mondo (il “sociale bianco”). Essa semmai si segnalava per la sua distanza/differenza da esso, anche a motivo del suo elitarismo (non in senso spregiativo). Se positivamente o meno è materia di discussione e io non ho difficoltà a riconoscervi un merito. Ma che distanza/opposizione vi fosse e vi sia è innegabile;
– altrettanto tirata è la tesi per cui in quel congresso FUCI di trent’anni fa fosse già scritta in nuce la riforma Boschi, allora neonata.
Capisco che taluni protagonisti di allora amino raccontarsela così, ma la cosa mi ricorda la leggenda del birillo di Foligno quale centro del mondo;
– so bene che taluni, sempre quelli, raccontano anche che tutto era già scritto nella tesi n. 1 dell’Ulivo stilata nel 1996. Una balla ripetuta mille volte resta una balla. Basti un fatto: la mano prevalente nella stesura della parte istituzioni di quel programma fu di Valerio Onida, oggi estensore e primo firmatario del documento dei 56 costituzionalisti, tra i quali 11 ex presidenti della Consulta, per il no al referendum costituzionale.