di Sandro Antoniazzi
Il lavoro, in quanto problema politico e sociale, ha conosciuto nell’epoca recente una caduta verticale.
Il motivo è evidente e non ha bisogno di spiegazioni: è tramontata la classe operaia, cioè il soggetto storico attorno a cui il lavoro aveva assunto uno straordinario valore politico per oltre un secolo.
E, parallelamente, si è conclusa la parabola del complesso apparato che sosteneva questo storico programma politico: i partiti operai di massa (comunista e socialista) e la dottrina ideologica che li supportava, il marxismo.
Forse l’abbandono di questo rilevante patrimonio storico è avvenuto in modo troppo sbrigativo, ma soprattutto non è stato fatto nessun sforzo, anche minimo, di sostituire al vecchio discorso un pensiero nuovo.
Così questo vuoto, che si è creato in mancanza di una risposta adeguata, è stato riempito con facilità e senza resistenza, dalla vulgata neoliberista, i cui discorsi ideologici sono straripati diventando dominanti: capitale umano, flessibilità, qualità totale, essere imprenditori di sé stessi, esuberi, personale superfluo…
Non solo, la mancanza di una prospettiva alternativa ha prodotto un fenomeno di generale sottomissione all’esistente, un’accettazione supina pur dissentendo, una forma simile a una servitù volontaria di massa.
E’ dunque quanto mai urgente e decisivo ricostruire un robusto valore politico e sociale del lavoro che sia nel contempo un punto di riferimento e di forza per i lavoratori e una valida barriera di difesa nei confronti della logica neoliberale.
Il maggior ostacolo che incontra chi si accinge a quest’opera è, a prima vista, una questione banale: si tratta della diffusa convinzione che non esista più il lavoro, ma esistano i lavori; e poiché i lavori sono tanti, diversificati, disarticolati, risulti impossibile una visione unitaria.
Così una formuletta sociologica approssimativa si trasforma in una potente affermazione dogmatica: non è possibile una sintesi, un pensiero, un’elaborazione e ciò frena ogni possibilità di “teorizzazione”.
E’ sufficiente un modesto sforzo di riflessione per dimostrare che le cose non stanno così: gli elementi per una possibile unificazione del mondo del lavoro sono tanti e robusti e costituiscono un solido fondamento per la ripresa del valore politico del lavoro.
Si potrebbe partire dalla constatazione più semplice, data dall’ampiezza del mondo del lavoro (25 milioni in Italia, 3,5 miliardi nel mondo) e dal fatto che tutte le grandi trasformazioni odierne, quella energetica-ambientale, quella tecnologica-digitale e quelle legata alla globalizzazione, passano dal lavoro.
Ma molti altri sono i fattori e le tendenze unificanti e lo sono ancor più quando diventano motivo di iniziativa e di lotta.
Il primo fattore da citare è indubbiamente la dignità del lavoro, un titolo sotto cui inserire la lotta ai bassi salari, al lavoro nero, alle pseudo-cooperative, a condizioni disumane di lavoro, ai finti stage, ai lavori penosi; si dovrebbe condurre una grande battaglia fino all’estirpazione totale di questa piaga. Questa battaglia sarebbe tanto ideale quanto concreta e coinvolgerebbe milioni di persone in una lotta umana unitaria.
In secondo luogo, la trasformazione digitale che riguarda larga parte del mondo del lavoro trova molti lavoratori impreparati, privi di una formazione adeguata. Un grande piano formativo, analogo alle 150 ore di cinquant’anni fa, costituirebbe una risposta concreta e troverebbe certamente un’ampia risposta collettiva.
Vi è poi un problema che emerge ogni giorno di più: la contraddizione stridente tra l‘essere cittadino democratico, portatore di diritti personali fondamentali, ed essere lavoratore dipendente, cui questi diritti elementari sono negati. Occorre iniziare a pensare a un nuovo genere di Statuto dei lavoratori che riguardi una condizione diversa, più democratica, del lavoratore in azienda.
Da qualche tempo si presenta un problema di nuovo genere, che riguarda un evidente cambiamento del rapporto lavoro-vita. Se ieri si era disposti a tutto pur di avere un lavoro, molti ora si chiedono se ne valga la pena perché tanti lavori non dicono niente, non hanno senso, sono privi di interesse. Da qui quella che in USA è stata chiamata la “great resignation”.
Essa è parte di una problematica più vasta, un tema che il movimento del lavoro non ha ancora affrontato e forse non ha neppure in mente: è il grande tema della soggettività. I valori sociali comuni si sono molto ridotti: se il sindacato si rivolge al “minimo comune sociale” deve sapere che oggi è esiguo e deve piuttosto apprendere linguaggi e strumenti per rivolgersi a un mondo di soggettività.
E poi si pongono i grandi problemi della globalizzazione (tutti politici): solo un sindacato più forte nel paese e più forte nei suoi legami e iniziative internazionali, può mettersi nelle condizioni di affrontare problemi di una dimensione che al momento si presenta superiore alle sue forze.
Il lavoro è la vita della gente, realizzazione di sé, è tanta parte dell’economia e della società; se si vuole fare una legge basta il Parlamento, ma se si vuole cambiare la società questi sono i problemi da affrontare.
Per questo il cattolicesimo sociale e democratico ha davanti una sfida cui non può rinunciare: è l’occasione di un suo rinnovamento e di una partecipazione fattiva alla ricostruzione di un pensiero e di un’iniziativa sociale, di cui ha bisogno la nostra società.
25 Febbraio 2023 at 15:10
Caro Antoniazzi, leggo sempre con grande interesse i tuoi articoli. Provengo da una esperienza politica simile alla tua. Condivido e penso che tu abbia pienamente centrato quali sono i problemi della nostra società. Le soluzioni che hai indicato sono giuste in linea teorica e costituiscono un’ottima base ideologica ma non riesco a vedere una strada e dei soggetti politici e sociali che possano portare alla loro concretizzazione. Il cattolicesimo sociale e democratico che tu, giustamente menzioni, se esiste è frammentato, soggettivo e non attivo a promuovere un coinvolgimento dei lavoratori e la loro partecipazione alla ricostruzione di un nuovo paradigma sociale. Ti faccio solo un esempio, come fa un cattolico ad essere d’accordo con l’escaletion agli armamenti in nome della pace? Possibile che i cattolici, anche stimolati dalle sollecitazioni di Papa Francesco, del Cardinal Zuppi, non riescano a creare un movimento politico realmente pacifista anche in Parlamento? Sono sicuro, visto anche i risultati di recenti sondaggi, che avrebbe grande consenso fra la gente. I lavoratori potrebbero sentirsi partecipi a una battaglia giusta in favore della pace, contro l’impoverimento causato dalle crescenti risorse destinate al riarmo e sottratte alla scuola, alla salute, al welfare ed alla solidarietà. C’è un mondo di volontariato in Italia che si sentirebbe ben rappresentato mentre ora è si trova a dovere lavorare contro burocrazie e tentativi di delegittimazione, come nel caso delle ong che salvano i migranti.