Il difficile momento di crisi che stiamo vivendo potrebbe essere l’occasione per riscoprire l’attualità della pratica della filosofia intesa come ‘ricerca del sapere-saggezza’. Credo, infatti, che oggi più che mai sarebbe opportuno, come suggerivano le grandi scuole dell’antichità, riservare uno spazio quotidiano alla meditazione filosofica. E mi pare bene, anzitutto, ricordare che la saggezza non si acquista in poco tempo ma grazie a un lungo esercizio e ha normalmente bisogno di nutrirsi della lettura di testi che aiutino a vedere la realtà quale effettivamente è, strappandoci dalle banalità dell’opinione corrente.
Leggere, poi, non significa sfogliare velocemente delle pagine per cercare informazioni sui più svariati argomenti o per conoscere le opinioni altrui ma rivedere le proprie scelte di vita alla luce di idee che possono anche metterle in questione. E non è facile, perché – come scrive un noto studioso del pensiero antico – “non sappiamo più leggere, ossia fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi, meditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino. È un esercizio spirituale, uno dei più difficili. <La gente, diceva Goethe, non sa quanto tempo e quanto sforzo costi imparare a leggere. Mi ci sono occorsi ottant’anni, e non sono neanche in grado di dire se ci sia riuscito>” (P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2005, p 68).
Fare filosofia – prosegue lo stesso autore – significa dunque “passare da uno stato di vita inautentica, oscurata dall’incoscienza, rosa dalla cura e dalle preoccupazioni, a uno stato di vita autentica, in cui l’uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori. […] Questa è la lezione della filosofia antica: un invito per ogni uomo a cambiare se stesso. La filosofia è conversione, trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere, ricerca della saggezza, di un nuovo modo di essere al mondo che consiste nel prendere coscienza di sé come parte della Natura, come particella della Ragione universale” (ivi, p 32 e 166).
Per fare filosofia non basta, dunque, meditare: occorre sforzarsi di assumere abitudini coerenti con le idee che cominciamo ad assimilare, perché – insegna Aristotele – “il giusto diviene tale col compiere azioni giuste e il temperante col compiere azioni temperate: e senza compiere queste azioni nessuno avrà neppure la prospettiva di diventare buono. Ma i più non fanno queste cose, e rifugiandosi invece nella teoria credono di filosofare, e che così diverranno uomini di valore; così facendo, assomigliano a quei malati che ascoltano, sì, attentamente i medici, ma non fanno nulla di quanto viene loro prescritto. Come, dunque, quelli non guariranno il loro corpo se si cureranno in questo modo, così questi la loro anima se faranno filosofia in questa maniera” (Etica Nicomachea 1105b).
Quello di cui parliamo è sicuramente un esercizio molto impegnativo, ma necessario se vogliamo essere padroni del nostro destino perché – ricorda Epitteto – “siamo da molto tempo abituati a fare il contrario di ciò che dovremmo fare, seguendo idee opposte a quelle corrette. Se dunque non cominceremo ad agire secondo le idee che ora abbiamo fatto nostre, lasceremo gli altri arbitri delle nostre vite” (Epitteto, Diatribe II,9,14).
Certo, sono pochi gli uomini che vogliono intraprendere questo cammino e molti quelli che non sono neanche in condizione di intraprenderlo: “come possono – prosegue ancora Hadot – raggiungere questa consapevolezza quei miliardi di uomini oppressi dalla miseria e dalla sofferenza? Essere filosofo non significa anche soffrire per questo isolamento, questo privilegio, questo lusso, e tenere sempre presente allo spirito questo dramma della condizione umana?” (ivi, p 196). Ma forse fare filosofia significa pure sentirsi responsabili di tale vasta parte di umanità.