don Enrico Ghezzi
Mi ha fatto molto riflettere l’ultimo caso del sacerdote di Trieste che si è tolto la vita per gli errori gravi commessi alcuni anni prima su una ragazza minorenne, di cui si è parlato recentemente nelle cronache dei giornali. Ci si chiede: come è possibile arrivare a tanta disperazione?
C’è un passato, nella preparazione alla vita sacerdotale, che deve spingere la chiesa a riflettere sulla educazione ricevuta nei seminari. Pur riconoscendo che il ‘male’ è comune alla nostra fragilità, è tuttavia inquietante il rivelarsi di tanta debolezza che prende il cuore di uomini che avevano scelto di donarsi al servizio del vangelo e della chiesa.
Mi chiedo: come è stata gestita, nel passato, l’affettività, la sessualità, l’eros nella vita di giovani avviati al sacerdozio?
Chi ha mai pensato alla fisicità, alla corporalità, allo sviluppo della personalità nel tempo della formazione di un prete?
Nella incarnazione del Verbo che è Gesù, nell’uomo Gesù, si sono sviluppate tutte le dinamiche umane e psicologiche perché Gesù si presentasse al mondo come ‘vero uomo’, “nato da donna” come ci ricorda S. Paolo (Gal 4.4).
Gesù conosce, nella casa di Nazaret, l’esperienza di una piena maturità incarnata.
Nella scelta dei Dodici, ad eccezione di Gesù stesso e forse dell’apostolo Giovanni, Gesù sceglie uomini sposati, abituati alla fatica del lavoro come erano i pescatori della Galilea. Con Giovanni Battista, in quel tempo, il celibato non era sconosciuto, come dimostrano le ricerche più recenti sulla setta degli Esseni, una parte dei quali viveva sulle sponde del Mar Morto, nelle grotte di Qumran, con una forma di vita celibataria.
In seguito, la chiesa, forse sull’esempio dei monaci, ha scelto il celibato anche per i sacerdoti: i secoli sono pieni di uomini e di donne che hanno vissuto con pienezza e gioia la loro donazione totale in una vita senza il matrimonio.
D’altra parte Gesù ne parla nel vangelo: “alcuni scelgono di essere eunuchi per il regno dei cieli” (Mt 19,12): è un rendersi disponibili, sullo stesso esempio di Gesù, a una totale e generosa dedizione al Signore e ai fratelli: da S. Francesco a Teresa di Calcutta, il mondo cristiano è pieno di figure dedite all’amore di Dio e ai fratelli.
In questi giorni la chiesa di Firenze ha presentato a tutto il popolo come modelli di santità le figure di tre personaggi che ci sono quasi contemporanei: il card. Elia della Costa, durante la guerra coraggioso difensore degli Ebrei perseguitati dal nazi-fascismo, don Facibeni, un grande sacerdote conosciuto a Firenze per la sua dedizione ai bambini poveri, e il sindaco Giorgio La Pira, conosciuto come fantastico testimone della pace nel mondo e difensore del mondo operaio. Ecco tre uomini celibi che hanno dato senso e contenuto alla loro vita ‘per il regno dei cieli’, nella faticosa e quotidiana testimonianza di amore. Questo è il senso del celibato: non una sterilità fisica (eunuchi), un contenersi faticoso ed esplosivo della affettività e sessualità, ma, al contrario, una vita che si fa piena di amore a Cristo (il cristocentrismo a cui spesso faceva riferimento Paolo VI) e al nostro prossimo. I preti, educati invece a un contenimento che ha diviso il cuore, i sentimenti, gli affetti, dalla corporalità, rischiano spesso di divenire uomini inquieti, amareggiati, scontenti, e in fine individualisti e soli. Una sofferenza e solitudine che, a volte, è sfociata nella tristezza di quei casi di cui oggi la chiesa si deve preoccupare.
Perché non tornare, allora, alla saggezza di Gesù: uomini per il sacerdozio maturi, veri, generosi? Perché non riprendere da quell’idea, spesso suggerita anche dal card. Martini e da altri, di fare sacerdoti i ‘probati viri’, uomini che nella loro famiglia hanno maturato saggezza ed equilibrio, e che sono ora disponibili per un servizio alla chiesa, come sacerdoti?
Sarebbe facilmente risolto il problema della mancanza di sacerdoti nelle nostre chiese, e soprattutto sarebbe facilitata la scelta al celibato di persone giovani, serene, di un sano umanesimo, senza quell’ansia di avere sacerdoti che spesso invece opprime la chiesa e la obbliga ad affidarsi a persone ancora non mature.
Dal nostro popolo, che continua ad avere amore e stima per i preti, è profondamente sentito di incontrare finalmente in loro persone sane e sante.
don Enrico Ghezzi