La tesi di Raniero La Valle, nell’articolo pubblicato su “il manifesto” del 12 ottobre (Tutta la Chiesa che c’è) è che “il Concilio è il modo in cui essere cristiani oggi”, e “va interrogato come un evento in corso, capace di svelare significati e prospettive che prima non si erano colte, non note nemmeno a quelli che il Concilio lo fecero”. E, a coloro che sostengono che con il Concilio si sono svuotate le chiese, risponde che “dovrebbero chiedersi non se le chiese sono più vuote, ma se i cieli sono più pieni, cioè in che misura l’offerta di salvezza arriva agli uomini di oggi”. Ed è lecito pensare che la chiesa oggi sappia meglio parlare agli uomini: “Il Concilio ha fatto una Chiesa di misericordia, di speranza e di apertura”. Il testo di Sergio Tanzarella (ripreso dal dossier di Adista) è una dura requisitoria su come la Chiesa del post-concilio abbia fatto cadere le testimonianza del card. Lercaro e di centinaia di altri vescovi sull’esigenza che la Chiesa si facesse povera e si ponesse a fianco dei poveri, contastando la società opulenta (Il Concilio Vaticano II ai tempi dello spread).
La tesi di Giuseppe de Rita e Luca Diotallevi, pubblicata sul “Corriere della Sera” (I pericoli e l’illusione, vinta, del Concilio), è che con il Concilio la Chiesa ha capito (forse per prima) i suoi tempi e dunque la necessità di “coltivare la dimensione globale, quella policentrica e quella soggettiva del mondo in questo passaggio di secolo”. E ha offerto tre lezioni di grande rilevanza alla cultura contemporanea: ha mostrato(1) di “sapere sviluppare un policentrismo governato”; (2) di saper agire scegliendo “la via lenta e media, la via che introduce ai cambiamenti più profondi, quelli che il conservatorismo nega o rimanda, quelli che il massimalismo ingenuo o ipocrita non si sogna neppure di conseguire”; (3) di aver compreso che va superata “l’idea che ci fosse una società perfetta, una polis ben governata, interpretata nei secoli dallo Stato e/o dalla Chiesa. Con il Concilio questa illusione di perfezione scompare ed oggi la cosa è ancor più evidente per la perdita di sovranità che colpisce tutti i soggetti istituzionali esistenti”. E, questa la conclusione dei due sociologi: “se non c’è più sovranità, non c’è più polis, non c’è più società perfetta: c’è solo «civitas», la formazione progressiva di un’identità collettiva figlia di condivisione e non di sovrapposto disegno ideologico o confessionale”.