La chiesa italiana terrà a novembre il V convegno nazionale. Il primo fu a Roma, su evangelizzazione e promozione umana. Era il 1976, in un clima ancora pienamente conciliare, pur già con delle rughe. Poi ci fu Loreto nel 1985. Ricordo lo sconcerto di molti, la tirata d’orecchi all’Azione cattolica e al suo presidente Alberto Monticone. Iniziava un tempo difficile, un tempo diverso. Un clima diverso. Poi Palermo nel 1995, con una qualche ripresa. Poi Verona nel 2006, con una chiesa italiana certo partecipata ma piuttosto divisa, con un suo “progetto culturale” che aveva continuato a suscitare non pochi dubbi. Proprio all’indomani di Verona, sorse una rete di gruppi ecclesiali e di riviste intenzionate a percorrere una via più strettamente evangelica e più libera e dialogica per essere chiesa nel nostro Paese (“Il Vangelo che abbiamo ricevuto”). A seguire sono sorte molte altre iniziative, da quella di Gigi Pedrazzi per ripercorrere la genesi e lo svolgimento del concilio Vaticano II, alla rete dei Viandanti per dare spazio a quel laicato che in passato era stato criticato per voler essere “adulto”, al raggruppamento “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”che ha posto l’istanza di una riforma della chiesa richiamandosi all’intuizione giovannea di una chiesa rigenerata a contatto con la povertà.
La Traccia del V convegno della chiesa italiana, in programma a Firenze il prossimo novembre, resa nota da parecchi tempo (dicembre 2014) dal presidente del Comitato preparatorio, l’arcivescovo di Torino mons. Nosiglia, presenta accenti in parte nuovi rispetto al passato: uno stile più aperto, più dialogico, e la dichiarata intenzione di aprire un processo partecipativo. Del resto, si era avviato da poco il pontificato sorprendente di papa Bergoglio. Il titolo del convegno però – “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” – qualche perplessità l’ha suscitata; come pure l’intendimento della Traccia di esporre in sintesi “le linee guida dell’umanesimo cristiano”. Vi si coglie una certa dose di ampollosa autosufficienza. D’altra parte, in realtà, la chiesa italiana non sembra essersi mostrata, nel suo insieme, molto reattiva di fronte ai pungoli cui l’ha sottoposta papa Francesco. E dalla Curia vaticana sono venuti, com’è palese, segnali discordanti.
In questa delicata transizione verso il convegno di Firenze, che si pone tra l’altro tra due eventi molto complessi e impegnativi (il Sinodo ordinario sulla famiglia di ottobre e l’apertura dell’Anno santo della misericordia a dicembre), la rivista Il Regno e il Gruppo Abele hanno organizzato un seminario tenutosi a Roma il 15 e 16 maggio, come contributo al convegno stesso (“Il Servo del Signore e l’umanità degli uomini”). Hanno collaborato alla sua realizzazione l’Azione cattolica italiana, la Caritas italiana, il CNCA (Consorzio nazionale delle cooperative di accoglienza), il Movimento dei Focolari e le Reti della Carità.
Nel saluto introduttivo il segretario della Cei, Nunzio Galantino, dopo aver riconosciuto che il titolo del convegno di novembre a parecchi “ha fatto venire l’orticaria”, lo ha comunque difeso affermando che con esso si è voluto dire di non voler essere “silenti e disarmati verso un libertinismo che non è buono per nessuno” e di voler tornare a “prendersi cura dell’uomo”. Soprattutto mons. Galantino ha insistito, però, sulla volontà di non fare un convegno autoreferenziale, dall’alto in basso, in cui tutto è già scritto e deciso prima di cominciare. Ha detto che l’intenzione è anche quella di “trovare una quadra” dei due diversi indirizzi seguiti nel post-concilio, quello pastorale e quello culturale (qui il riferimento al discusso progetto culturale della lunga presidenza Ruini è parso evidente). E ha messo in evidenza il ruolo di papa Bergoglio nell’approccio al convegno della Cei: in particolare la sua scelta di fare visita a Prato prima di giungere a Firenze. La Prato multiculturale, la Prato della sofferenza e dei conflitti per il lavoro spesso nero e super sfruttato. Il fatto che papa Francesco, prima di arrivare a Firenze, passi per Prato, ha detto Galantino, è una “cifra interpretativa” del convegno di Firenze e delle cinque vie di conversione pastorale indicate nella Traccia (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare).
Il Concilio e la Costituzione: programmi ancora da realizzare
Il seminario ha offerto molti spunti interessanti, a partire dall’introduzione di don Luigi Ciotti, punteggiata dal far memoria di tanti compagni di strada che hanno alimentato passione e speranza nei decenni passati: Giovanni Nervo, Giuseppe Pasini, Tonino Bello, Michele Pellegrino, Carlo Maria Martini. Il Concilio e la Costituzione, ha detto Ciotti, hanno indicato obiettivi che sono stati realizzati solo in minima parte; “sono carte che non sono diventate carne”. E c’è bisogno di fare delle scelte dirimenti per riaccendere la speranza di poter dare corpo ai cammini lì indicati. La rivista Il Regno pubblicherà in tempi molto brevi gli Atti dei seminario, e qui non si può che nominare i diversi contributi e riprendere solo alcuni degli spunti di maggior interesse.
Serena Noceti, teologa, vicepresidente dell’Associazione dei teologi italiani, ha offerto una lettura del secondo capitolo della Lettera ai Filippesi (“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo”) intesa a indicare che cosa significa, per Paolo e per il vangelo di Cristo, diventare umani, e a provocare una riflessione sul fatto che oggi il narcisismo assoluto sta portando a una perdita del senso della storia come progetto comune. Noceti ha sottolineato come le parole di Lumen gentium 8 sulla chiesa povera non siano state riprese dalla chiesa italiana, che anzi nei suoi tanti documenti e per oltre quattro decenni non ha mai neppure citato quel passo. E, nell’invitare ciascuno di noi ad assumere la posizione di quanti nella vita sono scartati e a partire di qui per guardare e giudicare la realtà, ha osservato che la chiesa italiana sembra oggi tentata di tornare a contare, a rafforzare le sue strutture, a mostrare un volto solido, ad avere una risposta su tutto … Tentazione da respingere, alla luce delle parole scandalose di Paolo.
Più che umanesimo, dignità umana
Che il tema dell’umanesimo sia un po’ stantio lo ha detto anche il teologo Piero Coda, coordinando un dialogo tra Salvatore Natoli e Kurt Appel, dibattito che ha preferito poggiare sulla nozione di “dignità umana”, dal momento che, come ha detto Coda, l’umanesimo è stato eurocentrico e ostile al riconoscimento delle differenze. In particolare Appel, docente di teologia fondamentale a Vienna, ha parlato di nuovo umanesimo, intendendo sottolineare alcune sfide cruciali, rispetto alle quali la teologia appare poco consapevole: la questione ecologica, un’atmosfera culturale quasi apocalittica, un senso di grande fragilità a cui si cerca di reagire in modo più virtuale che autentico. Appel suggerisce che un nuovo umanesimo può sorgere dal rendersi conto della fragilità umana, l’ecce homo del vangelo di Giovanni, dall’aprire lo sguardo su questa fragilità che è anche fragilità delle nostre società, fragilità dell’Europa, e, riconosciuta questa vulnerabilità dell’umano, puntare sulla relazione con l’altro, e non sul dominio sull’altro, sull’amicizia e non sull’ostilità. Essere fragili è, al tempo stesso, essere amici.
Sui limiti dell’umano, sulle sue possibilità, sugli enormi poteri della tecnica e però anche sui rischi che essa implica e sulle nuove marginalità che essa produce, hanno dibattuto il teologo moralista Paolo Benanti, l’ex ministro Enrico Giovannini e l’epidemiologo Giovanni Tognoni. Giovannini, in particolare, ha posto il tema di politiche sociali indirizzate all’inclusione attiva e, dunque, della necessità che lo Stato si prenda cura, concretamente, di chiunque sia uscito di scuola da un certo tempo e non abbia trovato lavoro e di chiunque sia da un certo tempo entrato in disoccupazione. Giovannini ha lamentato che su questo tema cruciale i cristiani, il cosiddetto mondo cattolico italiano, non abbia un progetto da proporre.
Ricostruire l’idea di cittadinanza: gli interventi di Ugo De Siervo e Emanuele Rossi
Sui temi della democrazia, della partecipazione e della cittadinanza si sono ascoltate voci stimolanti: quelle di Ugo De Siervo, di Emanuele Rossi e di Ilvo Diamanti. Molto presenti negli interventi dei costituzionalisti De Siervo e Rossi i richiami a Dossetti. De Siervo ha evidenziato l’urgenza di una legge sulla cittadinanza per sanare l’irragionevolezza del 10 per cento di persone residenti e attive in Italia che non sono riconosciuti come cittadini e non possono partecipare alla vita politica, e ha mosso una critica alla troppa fretta e approssimazione con cui si sta procedendo alla delineazione del nuovo Senato. Ma è stato soprattutto Emanuele Rossi ad approfondire la sfida culturale posta dall’immigrazione e l’esigenza di una lettura non formale della nozione di cittadinanza: i diritti della Costituzione (in primis l’art. 3) valgono non solo per i cittadini in senso stretto (quelli cui è riconosciuta la cittadinanza italiana) ma per tutti gli esseri umani presenti nel nostro Paese. Essere cittadini significa, innanzitutto, essere tutti uguali; mentre oggi sta passando l’idea di usare la nozione di cittadinanza per affermare una radicale diseguaglianza tra gli uni (gli italiani) e gli altri (gli stranieri). Rossi ha anche affrontato la sfida del welfare, avanzando l’ipotesi un welfare generativo (nozione tratta dalla Fondazione Zancan) che fa collega prestazioni sociali dovute a impegno di servizio civile per chi le riceve; e ha infine affrontato l’altra cruciale sfida, quella della democrazia partecipativa, criticando l’orientamento a fare a meno dei partiti e a volerli sostituire in toto con forme varie di rapporto diretto tra cittadini e istituzioni. Di Dossetti ha ripreso soprattutto l’idea della Costituzione come di un programma da realizzare, in un‘epoca che sembra considerarla invece come un insieme di vincoli e divieti da cui guardarsi per continuare a coltivare i propri interessi.
Due letture del presente piuttosto sconsolate: Ilvo Diamanti e Romano Prodi
Una sorta di de profundis della democrazia rappresentativa e dei corpi intermedi che la alimentano e la rendono possibile ha elevato, suo malgrado, Ilvo Diamanti, che ha manifestato tutto lo sconcerto attuale nel cercare di dirci che cosa sia la “democrazia”. La storia italiana (e non solo) del secondo dopoguerra l’ha sempre intesa, appunto, come democrazia rappresentativa, per cui il popolo è sovrano e decide attraverso i suoi rappresentanti. Una democrazia, cioè, della mediazione, nella quale i corpi intermedi sono essenziali; e corpi intermedi sono i partiti, ma non solo; sono i sindacati, ma soprattutto sono le associazioni, è il mondo cattolico, sono le istituzioni locali, è persino la scuola. Ma oggi la democrazia della mediazione è vista male, dice Diamanti. Il grado di fiducia per i partiti è al 3%; per il parlamento è all’8%; anche per i Comuni la fiducia è scesa al25-30%. C’è un collasso della fiducia nei sistemi di mediazione. E la democrazia rappresentativa è diventata impopolare. Si è passati alla democrazia “mediale, alla democrazia del pubblico. Dei sondaggi. E, infine, si sta arrivando alla democrazia immediata, che vuol dire sia senza più mediazioni sia che insegue l’immediato. I dati ci dicono, rileva Diamanti, che ben il 40% della popolazione ritiene che si possa fare a meno della democrazia. E’ la società della sfiducia. La sfiducia conta di più della fiducia. Un buon leader deve essere un anti-leader.
Romano Prodi, intervenuto subito dopo l’amico Diamanti e la sua sconsolata lettura della società italiana, è stato un po’ difficile prendere il largo per la sua disamina del contesto internazionale. Il punto di attracco è stata la stupita critica che egli si sente spesso fare dai suoi colleghi cinesi, nelle università dove va tenere lezione, che gli chiedono come possa l’Italia ragionare sempre sul breve periodo quando invece ci sono da affrontare questioni come lo sviluppo, la sanità, la formazione che avrebbero bisogno di ragionamenti sul lungo periodo. Dell’interessante excursus di Prodi vanno rilevate in particolare alcune tra le molte sottolineature: la (quasi rassegnata) presa d’atto della sempre maggiore ottica nazionale entro cui si muovono i Paesi che fanno parte dell’Unione europea; l’analoga presa d’atto dell’aumento delle diseguaglianze all’interno di ciascun Paese provocato dal cambio di mentalità avvenuto negli anni Ottanta, con Reagan e con la Thatcher e con la loro affermazione del primato dell’individuo sulla società e la lcritica alle tasse; la debolezza dell’Onu, non in grado di intervenire ormai se non nei conflitti minori, e le roppe contraddizioni della politica internazionale delle cosiddette “grandi potenze” che rendono quasi inestricabile il groviglio medio-orientale e i suoi attuali conflitti armati; il riconoscimento che i mutamenti tecnologici hanno colpito soprattutto gli operai specializzati, la classe media e il terziario, e che la rivoluzione tecnologica assorbe molto lentamente l’occupazione (anche per la Germania si deve tenere conto, ha osservato Prodi, che ci sono 5 milioni di persone che fanno dei micro-lavori con un guadagno che è intorno ai 500 euro mensili). “Oggi la mia angoscia è per il futuro del lavoro”, ha detto. Di fronte, infatti, a un 10% di lavoratori che sale in alto perché ha una forte specializzazione, c’è il 90% che va invece verso il basso, verso lavori poco qualificati. E, comunque, con l’1% di crescita annua del Pil non c’è aumento dell’occupazione. Prodi, venendo all’Italia, ha osservato come stia aumentando nettamente la divisione tra Nord e Sud e come su questa questione non vi siano proposte politiche in discussione. Inoltre si va manifestando un fenomeno di povertà persistente per una quota rilevante della popolazione, cioè una povertà da cui forse non si riuscirà più a venire fuori.
Nell’intervento di Prodi non ci sono state solo annotazioni negative. Ma quelle positive sono state tutte legate alle dinamiche nuove che hanno per protagoniste l’Oriente, e in particolare la Cina. Forse anche l’Africa, di cui ha detto che i grandi flussi migratori per fame a cui si assiste oggi (mescolati a quelli per le guerre in corso) potrebbero essere frenati se si accendesse in quei popoli una speranza di futuro, cosa che – è sembrato di capire dalle parole di Prodi – sarebbe possibile se l’Europa si impegnasse meglio in questa direzione. A papa Francesco ha riconosciuto di aver saputo cogliere gli elementi essenziali della situazione mondiale e di aver assunto una posizione diversa rispetto agli altri leader, e anche di saper esercitare una certa influenza sull’opinione pubblica mondiale e sui governanti. Ma diverso – ha detto – è riuscire a influire sulle scelte effettive dei governi. Ha però aggiunto che si è aperto uno spazio per cui è possibile che messaggi di natura religiosa e politico-culturale possano far espandere elementi di umanità nell’attuale contesto mondiale.
La misericordia esige la giustizia, ma va più lontano
Ai lavori del convegno, cui hanno dato contributi anche Gianfranco Brunelli, de Il Regno, Angelo Cupini, del CNCA, il biblista Piero Stefani, don Giovanni Soddu, direttore della Caritas italiana, don Virginio Colmegna, Giuseppe Notarstefano, vicepresidente dell’Aci, e Maria Voce, presidente dei Focolarini, ha messo la parola fine il molto anziano card. Roger Etchegaray con una breve e intensa meditazione sui rapporti tra giustizia e misericordia. L’uomo moderno, ha detto il cardinale, già perito conciliare, è assetato di giustizia e sembra non sopportare il bacio della misericordia. Ma la misericordia, lungi dall’opporsi alla giustizia, ha spiegato Etchegaray, la esige; ma va anche molto più in profondità. La nostra coscienza – ha aggiunto – esige un giudizio che premi il bene e punisca il male, ma noi rifiutiamo di lasciarci pesare sulla bilancia della giustizia, perché la nostra verità può essere colta solo dagli occhi dell’amore. Ha parlato brevemente il vecchio cardinale, ironizzando sul fatto che i presenti erano ormai stanchi di ascoltare ma facendo capire che forse anche era a lui che costava fatica parlare più a lungo … Ma dopo gli applausi, quando la gente stava già iniziando a lasciare l’auditorium di via della Conciliazione, Etchegaray ha ripreso il microfono e ha detto che doveva ancora aggiungere una cosa. Le sue parole erano più o meno queste: che “condividere per la misericordia porta più lontano che condividere per la giustizia”.
Giampiero Forcesi
8 Giugno 2015 at 10:07
Grazie per la relazione. Ho partecipato alla “Giornata” e mi sono convinta ancora di più che questo è proprio il momento di diffondere non solo le notizie sugli incontri delle varie realtà ecclesiali a cui da tempo partecipiamo, ma i contenuti di queste nostre discussioni. Mi pare che occorra ormai farlo con urgenza e metterle tutte insieme, in rete, come ha detto Diamanti. Occorre mi pare divulgarle presto e tutti insieme. Io come piccolissima cosa proporrò al nostro Parroco di fare il prossimo piano pastorale chiamando i (le) rappresentanti di tutta la gente che vive nella zona, sopratutto quelli che vivono situazioni di emergenza per lavoro, per situazioni familiari difficili, extracomunitari compresi. “I poveri li avrete sempre con voi!). Naturalmente non so se sarà possibile farlo. Mi sembra che questo sarebbe un piccolo passo verso il superamento della struttura gerarchica oggi in vigore, cosa tante volte auspicata da Papa Francesco