A proposito di quanto emerso al convegno di Paestum
Forse può essere ancora di qualche utilità che chi viene da esperienze ormai superate si permetta di intervenire sui temi dell’oggi. Sono molto favorevolmente colpita dalle conclusioni di Paestum, che incrociano, ma soprattutto arricchiscono, alcune riflessioni ancora troppo vaghe che mi hanno accompagnato. Forse sta davvero in queste conclusioni l’apporto insieme più specifico e caratterizzante del cattolicesimo democratico e il suo divenire possibile riferimento ideale che va oltre le appartenenze e le storie religiose.
Per dirla sinteticamente: la fine dei partiti di massa è una fine “oggettiva”, legata anche alla fine dell’essere e sentirsi “massa” in una società più articolata, mutevole, soggettiva, variegata, di quanto non fosse ieri. Pretendere di rifondarli è un doppio errore storico, sia per il senso da dare alla parola “massa”, sia per l’obbligo di una prospettiva ideologicamente fondata. Il recupero dell’impegno politico oggi non può passare attraverso un riconoscersi “massa”; quando lo si fa si rischia di farlo quasi inevitabilmente entro un contesto minoritario (si tratti di No Tav o di localismi leghisti) che chiude la politica in chiave protestataria, di rinuncia sostanziale al governo positivo delle cose e alle esigenze di mediazione, con il doppio effetto negativo di esasperare i conflitti e di favorire l’emergere di avventurieri della politica. In qualche modo si poterebbe paradossalmente dire che oggi le “masse” della politica sono soprattutto le destre, sono la difesa degli interessi consolidati o l’impunità delle corruzioni.
Oggi ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di diverso. E’ il partito della cittadinanza, in cui ogni soggetto è già consapevole, fin dagli inizi, del dovere di una sintesi, una sorta di continuità e di costante parentela, fra i suoi bisogni da rivendicare e i bisogni collettivi da favorire, fra il suo progetto di vita e i progetti collettivi da sostenere direttamente.
Oggi, insomma, al centro di un impegno civile e politico non può esserci che quello che è emerso a Paestum: la scelta partitica non può maturare se non come inevitabile corollario di un impegno di volontariato civile che la fonda (e questo può esserci nella correttezza e competenza professionale, nel servizio agli ultimi, nell’attenzione culturale, nel dialogo multietnico, e certo anche nella rappresentanza sindacale corretta, ecc.), e che la fonda insieme come responsabilità comune di governo del sistema, come verifica tecnica, puntuale, localizzata dei problemi e dei progetti comuni da sostenere, e soprattutto come assunzione primaria del senso stesso della democrazia, cioè del governo pacifico dei confitti attraverso la mediazione, sapendo che essa sarà sempre parziale e mai definitiva.
Questa è la forma che deve assumere il superamento delle ideologie. La nuova ideologia non può che essere etica di una cittadinanza praticata, si tratti del dirigente industriale che si sa responsabile dello sviluppo produttivo del paese e non solo delle sue rendite aziendali, o del pensionato che assiste un vecchio solo.
Insomma: mi sentirei di dubitare dell’autenticità di vocazioni politiche che non nascano da un volontariato civile motivato, entro cui maturino progetti e programmi politici adeguati. E questa è la questione di fondo anche in relazione alla rifondazione di partiti adeguati alla bisogna e del loro stesso modo di lavorare.
Non mi piace chiamare questo il partito della nazione. E non solo perché ritengo preferibile chiamarli partiti della Costituzione; ma anche per una ragione in più: perché è l’unico che può andare anche oltre la “nazione”.
Ci sarebbe molto ancora da riflettere e da dire. Ma mi preme aggiungere un dato soltanto. Questa forma di impegno dovrebbe essere consapevole che non ci sono nemici a priori. Ci sono, e ci saranno sempre, interessi contrastanti; ma il compito della politica è la mediazione, la mediazione pacifica dei conflitti, secondo una logica che premi sempre il massimo risultato e non conosca vincitori e vinti.
Ma qui l’esempio culturale dovrebbe venire dall’alto, dai grandi poteri internazionali, da chi governa il mondo, dalle istituzioni mondiali, ONU, Unione europea, organizzazioni continentali. L’analisi del perché sia fallito il sogno del 1945 non può limitarsi a rievocare le responsabilità della guerra fredda, gli effetti di una unificazione del mondo sotto l’ipoteca di tante disuguaglianze, le logiche ristrette che hanno guidato intere classi politiche. Si tratta di riscoprire che cosa significa davvero la parola “pace”, non come obiettivo ideale naturalmente difficile da raggiungere, ma come senso e metodo dei rapporti politici, come tecnica del governo pacifico dei conflitti, che ogni potere, ogni partito, è tenuto a rispettare. Altrimenti resta sempre “contro” il mondo.
Paola Gaiotti de Biase
19 Ottobre 2015 at 14:47
Cara Onorevole
sul volontariato condivido tutto. Lo pratico. Mi manca tuttavia il partito. Non di massa (nel senso di Canetti), evidentemente, ma una organizzazione democratica, numerosa, coesa, motivata, il cui servizio è essenzialmente quello di organizzare il consenso attorno ad un progetto di società il più prossimo possibile a quello che la Costituzione lascia intravedere.
Senza tale mediazione si rischia il populismo. L’appartenenza per l’appartenenza. I topo dietro il piffero magico.
Con molta stima
V. Campanelli