Non mi piacciono i toni catastrofisti con i quali larga parte degli oppositori al “Rosatellum-bis” parlano del progetto di riforma elettorale che ha ottenuto il “sì” della Camera e che probabilmente diventerà la legge con cui andremo a votare in primavera: nel complesso mi sembra una legge con pregi e difetti, non superiori – questi – a quelli delle diverse leggi che negli anni hanno accompagnato (e in parte prodotto) lo sfilacciamento del tessuto politico-istituzionale della nostra Repubblica. E’ quasi certo, peraltro, che il faticoso compromesso tra il postulato di rappresentatività delle Camere e l’obiettivo (non meno importante) di un adeguato standard di governabilità non servirà, neppure stavolta, a garantire né un governo stabile né una lunga durata della legislatura; e probabilmente, tra non molto andremo a votare sulla base di una legge, forse, ancora differente.
Non è una previsione rasserenante; se però accadrà così, non sarà tanto colpa di questa legge, ma piuttosto dell’incapacità complessiva delle forze politiche in campo di uscire dal clima imbarbarito che ne contrassegna i rapporti reciproci (persino all’interno dei singoli partiti), riversando anche sul terreno strettamente istituzionale la pratica della guerra per bande, ora impegnandosi in una vera e propria lotta a coltello e senza esclusione di colpi, ora risultando disposte ai più impensabili compromessi: non unica ma rilevante causa di una globale corrosione di credibilità, la quale – ciò che è più grave – viene a colpire la stessa fiducia dei cittadini nel metodo democratico. E che di questa corrosione non si preoccupino molto coloro ai quali è affidata la gestione del sistema è dimostrato anche dalla spudoratezza con la quale, un po’ da tutte le parti, si mette l’accento, prevalentemente se non esclusivamente, sui calcoli fatti o da farsi, alla stregua dei sondaggi, circa la convenienza, per il proprio schieramento, dell’uno o dell’altro meccanismo elettorale.
Non sono ingenuo fino al punto di immaginare che un partito si immoli consapevolmente sull’altare di una legge elettorale che già si sappia predestinarne la sparizione oppure il drastico ridimensionamento, o che favorisca smaccatamente e sicuramente gli avversari; ma non sarebbe pretendere troppo il chiedere che ciascuno richiamasse se stesso, prima che gli altri, all’esigenza primaria di fare, di una tale legge, un insieme di corrette “regole del gioco” per garantire in egual misura tutti e nessuno e per assicurare, anzitutto e soprattutto, un effettivo rispetto della volontà dell’elettore.
E’ sotto quest’ultimo aspetto che – in particolare nel confronto con quel “Mattarellum” cui, pure, sotto altri aspetti si avvicina – anche il “Rosatellum”, non meno dei suoi diretti predecessori, si espone a una critica severa. E dico subito che, a mio modo di vedere, se la volontà dell’elettore ne viene pesantemente coartata, non è tanto per la presenza, in sé e per sé, dei “listini” bloccati nella quota proporzionale (certo, questo non piace nemmeno a me, ma tutti sappiamo che l’alternativa più frequentemente prospettata – il ritorno alle “preferenze” – si è a sua volta prestata a serie obiezioni a causa delle degenerazioni cui in passato essa si è prestata). Secondo me, inaccettabile è soprattutto il divieto del cosiddetto “voto disgiunto”.
L’elettore sarà infatti costretto a legare irrimediabilmente tra loro i due voti, per l’uninominale e per il proporzionale, quando la convivenza tra suffragio di lista e suffragio al singolo ha invece un senso proprio in quanto consenta anche la possibilità di due scelte diverse. Posso avere fiducia globale in un partito e non avere sufficiente stima nel personaggio che vedo rappresentarlo nella parte uninominale della scheda. E viceversa: posso avere grande considerazione per un determinato candidato del mio collegio e non per i suoi colleghi del “listino” o comunque preferire la “linea” globale di un partito diverso da quelli che lo appoggiano. Perché una delle mie opzioni deve essere necessariamente sacrificata? A dire il vero, una doppia libertà di scelta sarebbe meglio garantita, secondo me, se la quota proporzionale degli eletti fosse attribuita – coerentemente con il significato che il voto assume sotto tale profilo – a un unico collegio nazionale (come avvenne nella prima prova elettorale della nuova Italia democratica, quella per l’Assemblea Costituente); ma, quantomeno, non mi si costringa a contraddirmi forzatamente sacrificando artificiosamente, al 50 per cento, la mia volontà, la cui integrale espressione appare addirittura suggerita dalla presenza, sulla scheda, di una contestuale pluralità di riferimenti.
Oltretutto, si è pensato a quante potranno essere le schede annullate a causa della ribellione, consapevole o inconsapevole, di elettori a questa violenza, sia pure “soft”?
Mario Chiavario
Professore emerito, già ordinario di Diritto processuale penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino; membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, e dell’Association Internationale de Droit pénal e dell’Académie Internationale de Droit comparé. Ha fondato nel 1981 e tuttora dirige la rivista trimestrale “La legislazione penale”.
18 Ottobre 2017 at 11:51
Condivido il ragionamento sui motivi che consigliano il voto disgiunto. Tra l’altro, in assenza di preferenze (che mi vedono favorevole, pur conoscendo le degenerazioni che possono verificarsi – ma non può essere la stesa cosa per eventuali primarie?); a questo punto è come votare, sia per la parte maggioritaria che per quella proporzionale, quasi tutti i parlamentari in collegi uninominali.
Però, a questo punto, affermo che tutto va bene; non pensiamo ad altre nuove riforme elettorali. Perchè ogni volta si peggiora rispetto alla scelta che si vuole, veramente, dell’elettore; e si sta tornando alla situazione pre-fascista, con probabilissimo ritorno al e ai di collegio.
19 Ottobre 2017 at 10:22
nel precedente commento è saltato un pezzo che ripropongo:
“si sta tornando alla situazione pre-fascista, con probabilissimo ritorno al trasformismo e ai notabili di collegio”