Da: stefano.ceccanti@senato.it
Inviato: domenica 13 gennaio 2013 21.58
Oggetto: qui sotto il mio intervento ad Orvieto su "Riformismo vs.
populismo", in allegato l'articolo di Fabio Martini
Allegati: martini.pdf
avviso: la relazione base di
Antonio Funiciello e la registrazione audio video di Radio Radicale sono sul
blog
www.stefanoceccanti.wordpress.com
Stefano
Ceccanti, Orvieto 12 gennaio
Chi sono i
populisti e come si possono battere: chi può parlare più credibilmente il
linguaggio di liberazione di Isaia?
1.
Riconoscere i populisti dal loro linguaggio
Per
battere i populisti bisogna anzitutto riconoscerli e capire perché essi possano
oggi affascinare in misura significativa quote elevate di elettori in molte
democrazie europee fino a poter vincere nell’urna.
Non
sarebbe del resto la prima volta che un progetto riformista è sconfitto da una
spinta populista: abbiamo tutti in mente il classico esempio della scelta tra
Gesù e Barabba, che però è per lo più usato in termini consolatori e
reazionari, quasi che sempre il riformista dovesse uscire soccombente, almeno
quando si esce dal terreno delle élites illuminate, mentre come sappiamo ciò
non è affatto vero. Ci ricordiamo del solco riformista impresso da De Gasperi
nella prima legislatura mentre quasi nessuno ricorda Giannini, di quello di
Mendès France (pur molto più breve in termini di governo) e non del cartolaio
Poujade, e così via. Vari riformisti hanno effettivamente battuto populisti
anche molto efficaci. L’obiettivo non è affatto impossibile.
Riconoscere
l’avversario in questo caso non è però facile perché nessuno si auto-definisce
populista, mentre ad altri avversari possiamo già rimproverare la loro
autodefinizione che esclude almeno formalmente il riformismo: fascisti,
comunisti, conservatori e così via.
Però c’è
almeno una retorica del populismo, grazie alla quale possiamo riconoscerlo,
anche se, e questo è già un altro problema collaterale, tale retorica è spesso
affascinante per molti. Il populista sembra poter utilizzare credibilmente il
linguaggio di liberazione della profezia del profeta Isaia rispetto all’esilio
del popolo ebraico a Babilonia, espressa con particolare forza nei capitoli 40
e 49 del suo Libro. Un linguaggio così sintetizzato in due strofe di un bel
canto religioso, che riprende proprio quei capitoli:
“Scuoti la
polvere, alzati in piedi, libera il collo dalle catene: senza denaro sei stato
venduto senza denaro sarai riscattato.
Gli
antichi mali son cancellati, gli antichi giorni sono passati, le antiche valli
sono colmate, le antiche strade sono appianate.”
Ovviamente
l’uso è abusivo perché Isaia era in realtà un riformista e non un populista:
ispirò le riforme del Re Ezechia contro i sacrifici umani e il culto agli
idoli, realtà a cui si riferisce polemicamente in vari capitoli del libro.
Eppure, è un dato di fatto, quel linguaggio di liberazione può essere
sequestrato praticamente dai populisti e apparire affascinante nella loro
bocca.
La
battaglia grillina contro la casta, il mito salvifico di Ingroia dell’azione
penale come panacea assoluta anche in politica, il mix berlusconiano-leghista
tra mito dell’imprenditore di successo e protezione della piccola patria,
parlano in modi diversi a settori rilevanti del Paese. Denunciano le catene
della corruzione, dell”Europa, del denaro e promettono anch’essi di colmare le
valli e di appianare le strade. Qui sta il nostro problema: nel 2013 possono
sembrare credibili nelle bocche dei populisti e non in quelle dei riformisti le
parole di Isaia 49, 25-26:
“Anche il
prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno.
Io
avverserò i tuoi avversari, io salverò i tuoi figli.
Farò
mangiare le loro stesse carni ai tuoi oppressori,
si ubriacheranno del proprio sangue come di mosto.”
2. Le tre
ragioni fondamentali dell’appeal odierno dei populisti
La prima ragione è che in effetti vi è davvero una sorta di cattività
babilonese, perché ci sentiamo in larga parte prigionieri di un potere che non
è più presso di noi. I luoghi dove si decidono le policies sono in larga parte
a livello dell’Unione europea, come prodotto soprattutto dei negoziati tra i
Governi mentre i luoghi di politics, del gioco politico, sono rimasti
nazionali. Da questo punto di vista le elezioni di febbraio sono certo anche la
scelta di un orientamento per un Governo nazionale, ma quest’ultimo avrà
anzitutto un ruolo di negoziatore più che di decisore diretto. E’ una
consapevolezza comune, anche se espressa spesso in modo confuso e regressivo.
I
populisti non sbagliano, al di là dei toni, su vari aspetti della pars
destruens: è un dato obiettivo che i cittadini si sentano indeboliti nel loro
potere di incidere. La ricetta riformista è però, se ben chiarita, l’unica convincente:
non l’impossibile ritorno a sovranità obsolete, non la polemica contro l’Europa
del Nord perché sarebbe troppo severa rispetto ai nostri innegabili errori
(come il mancato rientro dal debito), ma la conquista delle opinioni pubbliche
del Nord con la nostra ritrovata serietà per mettere in agenda una più forte
unità politica. Qui è il lascito primo del Governo Monti, anche grazie al ruolo
del Pd: in quest’anno vissuto pericolosamente gli elettori della Cdu e della
Spd, quelli a cui devono rendere conto i leaders tedeschi che non agiscono
affatto nel vuoto, liberi da vincoli, come sovrani assoluti, hanno visto in
Italia qualcosa di veramente nuovo, da consolidare.
La preda
sfuggirà al tiranno e il prigioniero sarà strappato al forte perché avremo convinto
chi deve cooperare con noi che non siamo più quelli degli imbrogli di Tremonti
sulle date di entrata in vigore dei vincoli di bilancio, delle dita alzate da
Bossi sulla riforma delle pensioni, dell’incapacità di Berlusconi di tenere
insieme in modo efficace, produttivo di riforme, una delle più grandi
maggioranze mai viste.
La seconda
ragione è la debolezza peculiare delle nostre istituzioni, degli argini che
dovrebbero incanalare il populismo, presentandogli davanti e contro di esso le
condizioni di decisioni rapide ed efficaci con strumenti normali. Le Pen e
Melenchon possono anche prendere un terzo dei voti e Hollande può non essere un
grande statista carismatico, ma lì ci sono a suo puntello come ricordava
Funiciello nella relazione introduttiva, le istituzioni della Quinta
Repubblica, l’elezione diretta del Presidente e il collegio uninominale, cinque
anni di Governo coerente garantiti a priori, gli strumenti per la corsia
preferenziale del Governo in Parlamento e le nuove garanzie dell’opposizione,
in una manutenzione costante che non è vissuta come un attentato alla
Costituzione. Non c’è la nostra sovrapposizione confusa della deliberata
debolezza costituzionale del governo per le ragioni dovute alla Guerra Fredda
con i rattoppi utilizzati per aggirarla (decreti, maxi emendamenti, fiducie, e
così via). Proprio chi celebra l’attualità e la forza espansiva dei principi
della Prima Parte della Costituzione dovrebbe essere in prima fila per proporre
un’innovazione significativa sul piano organizzativo e non solo qualche
intervento di bricolage, non ben assemblato con altri.
Sono in
grado i riformisti, anche su questo decisivo terreno di presentarsi loro come
gli eredi di Isaia, come i distruttori degli idoli del mix tra conservatorismo
istituzionale e innovazioni surrettizie?
La terza
ragione sta appunto nella incertezza del profilo delle uniche due proposte
riformiste in campo, quella del Pd e quella della Lista Monti. Indubbiamente
l’elettorato più avvertito può comunque convergere sull’una o sull’altra di
esse e spingere ad una loro alleanza anche solo per la logica minimalista del
“male minore” o, meglio, del “bene possibile”, ma ciò rischia di avere meno
appeal per il complesso dell’elettorato, che ha bisogno di proposte più
convincenti in positivo, ha bisogno di sentire che il linguaggio di Isaia di
sfida ai conservatorismi, alle schiavitù del presente, è parlato più
convincentemente dai riformisti.
Sono i
riformisti in grado di lanciare più credibilmente un messaggio di liberazione
dallo status quo, di dire loro con capacità di convinzione:
“Scuoti la
polvere alzati in piedi libera il collo dalle catene: senza denaro sei stato
venduto senza denaro sarai riscattato.”?
Nel Pd lo
sono senz’altro molti degli indipendenti presentati in questi ultimi giorni, ma
siamo sicuri che basti, rispetto ad altri richiami interni a ortodossie passate
rassicuranti solo per l’elettorato di appartenenza e comunque destinati ad
essere in larga parte e quanto prima smentiti una volta al Governo?
Nella
Lista Monti lo sono senz’altro il Presidente del Consiglio e coloro che puntano
risolutamente a un nuovo bipolarismo non più muscolare simile a quello delle
grandi democrazie europee. Ma come si concilia ciò con la convivenza almeno
temporanea con visioni di altri tese ad una democrazia stabilmente bloccata su
partiti di centro, che perpetua le storiche anomalie italiane?
Dobbiamo
augurarci che già nella campagna elettorale, per quanto possibile, e poi subito
dopo dal Governo, questi nodi vengano sciolti nella direzione giusta perché
un’Italia europea la si conquista non solo combattendo sulle singole policies
ma anche con istituzioni e un sistema politico interni agli standards europei.
Promettere
di uscire dall’esilio di Babilonia è molto di più di promettere il ritorno a un
Governo politico del proprio colore politico dentro un’Europa politica debole,
istituzioni fragili e un sistema politico nuovamente bloccato.
I
populisti si possono battere. Non è vero che debba vincere Barabba. Ma possono
essere battuti solo se i riformisti rispondono in maniera convincente a Isaia
44, 22-23:
“Questo è
un popolo saccheggiato e spogliato; sono tutti presi con il laccio nelle
caverne,
sono
rinchiusi in prigioni.
Sono
divenuti preda e non c’era un liberatore, saccheggio e non c’era chi dicesse:
«Restituisci».
Chi fra
voi porge l’orecchio a questo, vi fa attenzione e ascolta per il futuro?”